Tab Article
Difficile definire con precisione il genere di "Ventinovecento". È un'escursione negli anni Novanta di chi, in quei dieci anni di fine millennio lì - tra la diretta TV del botto di Senna al Tamburello e quella del botto delle Torri Gemelle - si è giocato bene o male il ruolo di "teenager". È una lettera - d'odio più che d'amore - indirizzata a una provincia in cui si nasce e non si cresce mai per davvero: Monza e Brianza (codice di avviamento postale 20900), con tutti i berlusconismi e i Gran Premi di Formula Uno del caso. È, per usare un avverbio tanto caro alle fabbrichette di quella terra, "tecnicamente" un romanzo di formazione - per quanto destrutturato e tenuto assieme giusto giusto da una sottile linea bianca - in cui si salta avanti e indietro attraverso la memoria confusa dei quattro protagonisti Sauzer, Patrese, Braulio e Trentatré: amici, consumatori, imprenditori, Power Rangers. È un'arancia meccanica di droghe, di aneddoti, di noie, di giraffe che prendono fuoco e di "altre cose così: per ridere". Anche se da ridere, alla fine, c'è solo a sproposito.